Le industrie creative e culturali: dove Roma può vincere!
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Il 7 Dicembre 1995, la Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea riportava la risoluzione del 20 Novembre sulla “promozione delle statistiche in materia di cultura e di crescita economica”. In tale risoluzione il consiglio invitava la Commissione a “garantire, in stretta collaborazione con gli Stati membri […] un migliore sfruttamento delle risorse statistiche esistenti, nonché il corretto svolgimento dei lavori finalizzati all’ottenimento di statistiche comparabili nell’ambito dell’Unione Europea per quanto concerne il settore della cultura”.
Da allora il quadro di riferimento della cultura e delle industrie culturali e creative ha avuto un rapido sviluppo, e oggi, sono numerose e frequenti le release di statistiche culturali, siano esse legate agli aspetti produttivi o di consumo, con riferimento al volume di occupazione o con riferimento alla fruizione culturale.
Eppure, a distanza di venti anni, un altro documento della Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, riconosce che: “i settori culturali e creativi sono fonte di valore culturale ed economico. Negli ultimi anni ci si è adoperati per far sì che i settori culturali e creativi diventassero parte integrante della società e dell’economia europee […] Tuttavia il loro più ampio contributo non è ancora stato pienamente riconosciuto, in particolare relativamente al potenziale della cultura e della creatività artistica di favorire l’innovazione in altri settori dell’economia […], nonostante “gli scambi tra i settori culturali e creativi e altri settori possono essere intesi come un processo [in grado di] generare soluzioni innovative e intelligenti per affrontale le attuali sfide della società.
Il confronto tra questi due documenti, divisi da venti anni di finanziamenti, studi, ricerche, politiche e risoluzioni, riesce a fotografare con lucidità due degli elementi principali della debolezza sistemica del comparto delle Industrie Culturali e Creative: la mancanza di dati attribuibili univocamente al comparto e una mancanza di comunicazione e scambio tra il comparto e il resto dell’economia produttiva.
Assumendo una prospettiva differente, entrambi questi aspetti denunciano uno stato ancora non maturo della formazione del comparto delle ICC, al cui interno coesistono esperienze differenti per dimensione d’azienda (sia in termini di volume d’affari, sia in termini di occupazione), per catena di valore e per output della produzione.
A riprova di questo stadio iniziale di formazione è il fatto che è soltanto da pochi anni che c’è un generale accordo su quali filiere produttive considerare incluse od escluse dal comparto: un lavoro del Febbraio 2013 ad opera di Creative Skillset in collaborazione con il DMCS (Department of Culture, Media and Sports) ha confutato la validità del modello di inclusione all’interno delle ICC che operava il Dipartimento britannico (e che includeva 13 filiere produttive) proponendo un modello alternativo (che invece ne includeva 7).
Uno studio edito da Ernst&Young nel Dicembre 2014 individuava invece undici industrie afferenti al comparto e in modo più specifico:
- Books
- Newspaper & Magazines
- Music
- Performing Arts
- TV
- Film
- Radio
- Video Games
- Visual Arts
- Architecture
- Advertising
Dall’esperienza di questa ricerca, è nato successivamente un altro report in cui i dati riferiti esclusivamente al mercato italiano sono stati raccolti in un volume, “Italia Creativa”, che si proclama come il “Primo Rapporto sulle Industrie Culturali e Creative in Italia” edito al principio del 2016 (con dati riferiti al 2014).
Prima di approfondire l’argomento, può essere utile confrontare i differenti settori che rientrano all’interno del comparto delle industrie culturali. Dalla produzione di libri a quella di programmi radiofonici, dalla produzione di videogiochi alla filiera dell’advertising (pubblicità). Come appare evidente già ad un primo sguardo, non solo gli output produttivi sono estremamente differenziati, ma anche le metodologie di lavoro non sono omogenee, e sembrano piuttosto il frutto di una decisione calata dall’alto (e dall’altro) piuttosto che una vera e propria divisione per cluster.
Sicuramente il modello di business correlato all’industria delle arti visive si differenzia e non di poco con quello dell’industria editoriale, e sicuramente tali differenze sono riscontrabili anche nelle dimensioni medie delle imprese attive nei rispettivi settori.
Nel 2011 lo European Cluster Observatory ha mappato, per conto dell'Unione Europea, diversi settori economici al fine di creare uno strumento di comparazione delle differenti economie nazionali. Tra i vari settori era presente anche il cluster delle industrie culturali e creative, la cui distribuzione per numero di imprese viene rappresentata di seguito.
All’interno del cluster confluivano i seguenti comparti economici:
- Advertising
- Artistic Creation and Literacy creation
- Museums and preservation of historical sites and building
- Other
- Printing and Publishing
- Radio and Television
- Retail and Distribution
- Software
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Su questo punto, è inoltre da segnalare che se l’aggregazione di informazioni non avviene secondo una metodologia condivisa da altri istituti di ricerca, i risultati delle rispettive elaborazioni non possono essere confrontati. Un’osservazione banale, immediata, ma che produce conseguenze non indifferenti.È dunque necessario approfondire un po’ il discorso, e affrontare, con dati ed evidenze, le difficoltà concrete che si incontrano quando si vuol parlare di un cluster vasto e differenziato come questo.
Più precisamente, nella nota metodologica divulgata dall’osservatorio si sottolinea come, in realtà, i codici di impresa SIC legati al cluster culturale e creativo siano 41.
Appare ancora più evidente, dunque, che questi rappresentano mercati molto diversi, e infatti, senza addentrarci in statistiche ridondanti, ci limitiamo ad evidenziare la differenza tra gli 0,3 impiegati per impresa riportati in Svezia nel settore della creazione artistica e letteraria e i 42,4 dipendenti impiegati nel settore Software in Slovacchia.
Appare dunque legittimo chiedersi se abbia o meno senso raggruppare esperienze così diverse all’interno del medesimo comparto. La risposta è sicuramente affermativa, con una piccola aggiunta di clausole da contratto.
Nel 2010, il Libro Verde “Le industrie Culturali e Creative, un potenziale da sfruttare” sosteneva nel proprio incipit: “Negli ultimi decenni recenti il ritmo di cambiamento del mondo è andato accelerandosi. Il rapido emergere di nuove tecnologie e la crescente globalizzazione hanno significato per l’Europa e altri parti del mondo una svolta profonda, caratterizzata dall’abbandono di forme tradizionali di produzione industriale e dalla preminenza assunta dal settore dei servizi e dell’innovazione. Le fabbriche sono progressivamente sostituite da comunità creative, la cui materia prima è la capacità di immaginare, creare e innovare”.
Nonostante il tono un po’ naif, è innegabile che da allora il settore ha assunto un peso determinante all’interno del panorama economico internazionale. Ruolo, del resto, confermato dallo stesso final report dello European Observatory Cluster: “Creative industries is the largest of the emerging industries in terms of employment, but perhaps more importantly, it is also the largest by the number of enterprises by a large margin”
In quello stesso report, vengono mostrati alcuni dati legati alle economie del settore: più di 12 milioni di impiegati e più di 3 milioni di imprese e un fatturato globale, nella UE di 1.648.326 milioni di euro. Questi dati, tuttavia, non esauriscono la reale portata del comparto: nonostante, come già è stato più volte ribadito, il cluster non abbia ancora raggiunto il massimo potenziale soprattutto per ciò che concerne gli scambi con gli altri settori dell’economia, quello delle industrie culturali e creative può essere uno dei più importanti comparti di connessione tra le varie specializzazioni industriali: “The results of the quantitative analyses […] revealed strong and increasing linkages with sector from Digital Services”.
Nonostante il periodo di grande attività che ha segnato il comparto tuttavia, ci sono ancora sostanziali passi avanti da realizzare: le industrie culturali e creative infatti non possono più essere considerate semplicemente una industria emergente e questo non solo perché ormai è un settore riconosciuto a tutti gli effetti, ma anche perché si è assistito, progressivamente, ad una maturazione dei modelli di business dei settori che lo formano.
Se non può essere considerato dunque come un cluster emergente, non può tuttavia, allo stato dell’arte, essere considerato come cluster consolidato: ad oggi non solo mancano delle rilevazioni specifiche, come sottolinea lo stesso sito dell’Eurostat: “As there are no specific collections of data pertaining to culture and the contribution of culture to the economy, the culture statistics are derived from already existing multi-purpose data collections”
Oltre a questa mancanza di rilevazioni specifiche, si manifesta anche un’assenza di una serie di indicatori che siano in grado di includere all’interno delle statistiche legate al fenomeno, la dimensione non economica e qualitativa della produzione delle industrie culturali e creative, i cui fini statutari spesso prevedono il perseguimento di valori immateriali non necessariamente di natura contabile e/o monetaria.
E ancora manca una visione politica unitaria di ciò che rappresenta questo cluster, con una conseguente latenza di una cosiddetta politica industriale specifica, in grado di favorire un concreto sviluppo di un settore che ha dimostrato di essere uno dei settori più attivi sul piano occupazionale, nonostante il periodo di profonda crisi economica e finanziaria che l’Europa e i singoli Stati membri si sono trovati ad affrontare.
Le opportunità delle ICC a Roma
Le rilevazioni sinora presentate, lasciano emergere una duplice serie di osservazioni: la prima è che, nonostante un grande impegno da parte dei differenti Stati membri, non ancora si sia pervenuti ad una visione unitaria del concetto di Industria Culturale e Creativa, con tutti gli aspetti critici che questo stato dell’arte comporta; la seconda serie di riflessioni riguarda invece l’opportunità (e la necessità) della creazione di un sistema territoriale che sia in grado di posizionarsi su un settore industriale estremamente dinamico, che offre delle grandi possibilità di sviluppo economico e sociale.
Questo ultimo punto è ormai noto, soprattutto con riferimento al numero di imprese e quello delle risorse umane impiegate all’interno del settore. L’Italia ha già avviato negli ultimi anni numerose azioni volte a stimolare questo mercato, Roma gioca un ruolo di estrema rilevanza all’interno del panorama nazionale.
Con riferimento ai dati rilevati dallo European Cluster Observatory, il Lazio è infatti la seconda regione per numero di impiegati, dietro soltanto alla Lombardia.
Figura 1: Regioni per numero di Impiegati nelle ICC (fonte European Cluster Observatory)
Nel solo Lazio, dunque, al 2011, il numero di persone che a vario titolo venivano occupate all’interno del cluster delle industrie culturali e creative erano 108.717, vale a dire il 16,35% dell’intera occupazione del comparto in Italia.
Particolarmente rilevanti, a tal riguardo, risultano essere le industrie legate allo sviluppo di Software e della comunicazione (Radio e Televisioni), seguite dagli impiegati nel settore della Creazione Artistica e Letteraria.
Figura 2: Numero di Impiegati nel Lazio per comparto afferente le ICC
Roma può contare in questo senso anche su una forte dotazione di asset storico-culturali che rendono il territorio della capitale uno dei territori a più forte vocazione culturale su scala internazionale. Le conseguenze più naturali e dirette di questo “patrimonio” riguardano in primo luogo il turismo ed in particolar modo il turismo culturale: al riguardo la provincia di Roma costituisce la prima circoscrizione territoriale per quanto concerne l’indice di domanda culturale (che misura il rapporto tra i visitatori annui degli istituti statali di antichità ed arte sul numero totale degli istituti), come mostrato dalla tabella:
Figura 3: Indice di Domanda Culturale, Migliaia di Unità, Anno 2014
Questo dato, che è riferito esclusivamente alle strutture statali, dimostra anche sulla base delle statistiche, quella naturale inclinazione che da tutto il mondo riconosce in Roma e nella romanità, un valore storico e culturale di primo rilievo. Tale dato si accompagna ad un altro di altrettanta rilevanza che mostra il rapporto, per quegli stessi istituti, tra visitatori paganti e non paganti:
Figura 4: Grado di Promozione dell'Offerta Culturale
Oltre alla semplice fruizione tuttavia è di estrema rilevanza riuscire a monetizzare questa inclinazione: non per uno spirito liberale che vede qualsiasi valore soggetto alle logiche della domanda e dell’offerta, ma per uno spirito di massimizzazione dei risultati ottenibili in termini di benessere individuale e collettivo, di sostenibilità nel tempo di processi di creazione legati alle dinamiche culturali e creative, e di capacità, da parte dell’amministrazione di tutelare ma soprattutto di valorizzare i propri patrimoni.
Attuare un processo che mira ad ottenere l’efficienza del sistema culturale e creativo all’interno della città di Roma implica un più elevato benessere economico (con maggiore numero di imprese, maggiore impiego e più equa distribuzione della ricchezza), sociale (con più numerose possibilità di incontro sui temi legati alla vita cittadina, maggiore interazione attraverso eventi di stampo culturale) ed individuale.
Il discorso è molto più complesso, e coinvolge tutte le discipline che si concentrano sullo sviluppo urbano: dall’architettura all’economia urbana, dalla sociologia alla psicologia, dalla legislazione delle nuove forme di collaborazione tra pubblico e privato ai sistemi di produzione tipici della sharing economy. Tutti questi fattori sono direttrici di sviluppo che convergono verso una realtà più vivace, più attiva ed innovativa. Non è il caso di approfondire troppo il discorso, ma, secondo un approccio esclusivamente pragmatico e un po’ semplicistico, è innegabile che le tante Silicon Valley che sono spuntate in giro per il mondo emulando il modello originale, non sono il mero risultato di un afflusso di capitali, che invece rappresenta più una conseguenza che un fattore scatenante. Creare uno scenario in cui sia semplice aprire una società, in cui i costi fissi legati alla fase di start-up siano agevolati (sul piano fiscale o di reperimento dei capitali), coltivare una cultura dell’imprenditorialità (che è differente dalla mera logica dell’autoimpiego), favorire la commistione di settori industriali differenti, sono tutti elementi che attraggono in modo molto forte gli investimenti.
Volendo essere ancora più incisivi, si può affermare che inserire semplicemente degli incentivi all’investimento da parte di capitali privati in micro e piccole imprese non risponde ad una logica di sviluppo di medio periodo soprattutto per gli investitori, che vedranno negli incentivi proposti l’unico vantaggio di avviare operazioni che avranno pertanto un orizzonte temporale brevissimo. Al contrario, investire sullo sviluppo del territorio (e mantenere delle posizioni competitive per quanto riguarda gli investimenti) permette di creare le condizioni di un investimento più strutturato, e di un afflusso di capitali in grado di generare delle ricadute dirette, indirette e complesse all’interno del territorio.
È quindi di fondamentale importanza che ci sia una forte riflessione sulle criticità sistemiche e sulle opportunità che il territorio regionale e afferente la città metropolitana possono presentare nei riguardi di questo cluster. Per fare ciò bisogna avviare delle azioni che vadano oltre la semplice dotazione infrastrutturale ma che prevedano una visione che tenga conto di una normativa di settore, dello sviluppo di politiche fiscali, e della capacità di attori non prettamente economici (quali il settore universitario e quello della Pubblica Amministrazione) di creare sinergie tra lo sviluppo del mercato specifico e le ricadute che questo ha sull’economia nel suo complesso, facilitando l’introduzione delle innovazioni, in termini di modelli di business e di catene di creazione del valore all’interno delle industrie più tradizionali.
Stefano Monti