Roma e Milano: utopie e fango nella competizione fra città
12:00
(Pubblicato su Huffington Post del 15 febbraio 2016)
Roma e Milano, gemelle e opposte, e sempre in lotta per chi rappresenti meglio l'identità dell'Italia, (lotta vana, per altro, in un paese molteplice come il nostro), anche in queste elezioni presentano ragioni di riflessione e di competizione.
Qual è il punto? Milano sembra oramai in corsa per eleggere alla carica di sindaco una figura che potremmo definire di "city manager rafforzato". Detto con nessun senso riduttivo (e lo si capirà tra un attimo), si tratta di una scelta che, non casualmente, poteva accadere solo a Milano. E vedremo tra un attimo perché.
Roma s'appresta a scegliere comunque un politico (Bertolaso è cresciuto dentro l'humus politico non meno di un politico di professione) e, ancora una volta, sembra distanziarsi da Milano, o meglio, dandogli un'interpretazione un po' con il pregiudizio, sembra arrancare rispetto a Milano proprio in questo, nella non scelta di un manager. Dove per manager s'intende uno che fa le cose, le porta a compimento, insomma un uomo del fare, per seguire la semplificazione giornalistica.
Allora qui arriva la prima considerazione. Milano ha già, e da tempo, risolto i problemi della civicness o, per usare termini più neutrali, il problema del funzionamento di base della città e del ruolo e della qualità della sua macchina pubblica. Milano è entrata da tempo in quella sfera di competizione globale che si chiama mercato dell'attrazione. Dove il termine è onnicomprensivo, come attrazione degli investimenti, attrazione turistica e attrazione dei nuovi residenti. Città che attrae, attrae in tutte le cose; città che respinge, respinge in ogni cosa. È la semplice regola della competizione tra le città. Dove si allocheranno i grandi capitali internazionali? A Milano o a Singapore? A Seul o a Rio de Janeiro? Non sono nomi fatti a caso, ma indicano che la competizione globale si svolge esattamente su questo piano: una città vale l'altra, quel che conta è la loro capacità di produrre ricchezza. Milano gioca in questo mercato.
La politica di cui Milano ha bisogno è quella di rendere compatta la sua comunità e di presentarla al meglio sul mercato globale della competizione tra le città che decidono i destini del mondo. Non è facile neppure per Milano, ma il campionato è quello. Poi, certamente, esistono le questioni di giustizia sociale, di pari opportunità per tutti, di equilibrio economico nelle classi sociali. Ma questi problemi si risolvono più facilmente quando la ricchezza cresce, perché quando diminuisce è quasi impossibile. Su questo oggi ruota la funzione della politica a Milano e il buon governo meneghino.
E Roma? Non avrebbe anch'essa bisogno di un "city manager potenziato"? Eh no, Roma ha bisogno d'altro. Roma che è naturaliter più capitale di Milano, e più globale di Milano (per storia, ambizione e potenzialità) ha problemi d'altra natura. Il problema numero uno di Roma è di ritrovarsi come collettività. Sembra una cosa astratta, ma è la cosa concretissima che la città non riesce a risolvere, e che negli ultimi anni sembra aver smarrito in maniera clamorosa. Roma ha bisogno della politica come l'arte di mettere insieme le persone, indicare una strada e realizzare le attese collettive. Roma ha bisogno di demiurghi che ne plasmino forme e contenuti secondo le necessità di questo nostro tempo, qui e ora.
Roma ha bisogno che le regole siano semplici e siano rispettate (il mondo contemporaneo, a cominciare dalla rivoluzione digitale, vuole immediatezza, semplicità, velocità); ha bisogno di uccidere la bestia che si è incuneata in molti ambiti della macchina pubblica, dove l'interesse particolare, illecito e lecito, si è allargato a dismisura. Ma c'è un problema più ampio, che è quello di rendere più forte il senso d'appartenenza alla città di ciascuno. C'è bisogno che il sindaco sia, in qualche modo, il centro di riferimento morale della città. La politica allo stesso tempo produce decisioni, coagula interessi e crea un rapporto simbolico con la città, nel bene e nel male. Oggi Roma ha bisogno di riscoprire la politica al suo massimo livello di ambizione: qualcosa che possa innescare una rigenerazione della città. Ci può riuscire un city manager? Non propriamente. Questo non vuol dire, naturalmente, che per Roma serva la cura delle parole, invece di quella dei fatti. No, serve la cura delle parole e dei fatti insieme, in stretta correlazione, in un infinito rimando tra le cose dette e quelle fatte, tra la percezione dei molti e la visione dell'uno (il sindaco). È una questione molto più complessa, che però ci porta, alla fine, a capire che proprio a questo serve la politica.
C'è una scintilla che Roma aspetta da troppi anni: quella che scatti tra un'esigenza latente della collettività di avere finalmente una città ordinata, facile, elementare, e la manifestazione chiara di questa ambizione anche nella classe dirigente locale. È questa scintilla che è mancata e che i Romani aspettano, finora invano. È questa scintilla che divide un leader da qualunque altro esponente politico che, semplicemente, pensa a gestire le cose, in una visione, questa sì, riduttiva, inutile, senza futuro e senza rispecchiamento collettivo.
E Roma ha anche bisogno che siano definite quelle tre/quattro cose strutturali che cambino davvero il volto della città e anche la sua anima, la sua testa. Ci vogliono idee-guida forti, non forti perché siano declamate con enfasi retorica, ma perché hanno dentro la capacità di scardinare davvero le cose, l'attuale disperante assetto di tutto ciò che è pubblico. A esempio, si può pensare a modernizzare la città e colpire al cuore la corruzione rendendo il cambio delle destinazioni d'uso spesso frutto di corruzioni o di pressioni politiche in qualcosa di trasparente, redditizio per il Comune e capace di attrarre investimenti stranieri? Si può pensare di sciogliere il rapporto incestuoso tra il comune di Roma e l'Atac, dove il primo è azionista e, nello stesso tempo, controparte dei contratti di servizio con la stessa Atac? Si può pensare al rilancio della cultura introducendo forme giuridiche nuove (le Fondazioni) al posto dell'attuale struttura tutta dentro la pubblica amministrazione? Sono tre linee di lavoro che hanno in sé un motore di cambiamento straordinario.
Chi può affermare queste (o altre) nuove idee che cambino radicalmente Roma, se non un sindaco-politico, nel senso prima detto? Possiamo trovare una strada che non sia l'utopia di chi ha la testa tra le nuvole o il realismo di chi sta con i piedi nel fango? Si può risollevare Roma senza il concorso diretto, convinto, impegnato del suo popolo? E chi lo può raggiungere questo risultato se non un politico, cioè una persona che nasca dall'investitura popolare nella sua intenzione di cambiare radicalmente Roma?
Anche questo, alla fine, è semplice. Bisogna che chi si candidi a Roma esprima con chiarezza le cose che intende fare, e se queste sono capaci di scardinare l'attuale status quo, ancor meglio. E con chiarezza indichi alla gente di scegliere, cioè di sostenerle. Con questo spirito, forte del consenso popolare, potrà davvero cambiare le cose con il concorso di tutti. La ricerca del consenso sganciato dalla chiarezza è quello che ha portato la città al disastro.
E sarà così che Roma, senza aver scelto il suo "city manager potenziato", si troverà miracolosamente nella competizione globale tra le città che determinano il destino del mondo. La premessa è che decida il suo, di destino, prima di tutto.
Roma e Milano, gemelle e opposte, e sempre in lotta per chi rappresenti meglio l'identità dell'Italia, (lotta vana, per altro, in un paese molteplice come il nostro), anche in queste elezioni presentano ragioni di riflessione e di competizione.
Qual è il punto? Milano sembra oramai in corsa per eleggere alla carica di sindaco una figura che potremmo definire di "city manager rafforzato". Detto con nessun senso riduttivo (e lo si capirà tra un attimo), si tratta di una scelta che, non casualmente, poteva accadere solo a Milano. E vedremo tra un attimo perché.
Roma s'appresta a scegliere comunque un politico (Bertolaso è cresciuto dentro l'humus politico non meno di un politico di professione) e, ancora una volta, sembra distanziarsi da Milano, o meglio, dandogli un'interpretazione un po' con il pregiudizio, sembra arrancare rispetto a Milano proprio in questo, nella non scelta di un manager. Dove per manager s'intende uno che fa le cose, le porta a compimento, insomma un uomo del fare, per seguire la semplificazione giornalistica.
Allora qui arriva la prima considerazione. Milano ha già, e da tempo, risolto i problemi della civicness o, per usare termini più neutrali, il problema del funzionamento di base della città e del ruolo e della qualità della sua macchina pubblica. Milano è entrata da tempo in quella sfera di competizione globale che si chiama mercato dell'attrazione. Dove il termine è onnicomprensivo, come attrazione degli investimenti, attrazione turistica e attrazione dei nuovi residenti. Città che attrae, attrae in tutte le cose; città che respinge, respinge in ogni cosa. È la semplice regola della competizione tra le città. Dove si allocheranno i grandi capitali internazionali? A Milano o a Singapore? A Seul o a Rio de Janeiro? Non sono nomi fatti a caso, ma indicano che la competizione globale si svolge esattamente su questo piano: una città vale l'altra, quel che conta è la loro capacità di produrre ricchezza. Milano gioca in questo mercato.
La politica di cui Milano ha bisogno è quella di rendere compatta la sua comunità e di presentarla al meglio sul mercato globale della competizione tra le città che decidono i destini del mondo. Non è facile neppure per Milano, ma il campionato è quello. Poi, certamente, esistono le questioni di giustizia sociale, di pari opportunità per tutti, di equilibrio economico nelle classi sociali. Ma questi problemi si risolvono più facilmente quando la ricchezza cresce, perché quando diminuisce è quasi impossibile. Su questo oggi ruota la funzione della politica a Milano e il buon governo meneghino.
E Roma? Non avrebbe anch'essa bisogno di un "city manager potenziato"? Eh no, Roma ha bisogno d'altro. Roma che è naturaliter più capitale di Milano, e più globale di Milano (per storia, ambizione e potenzialità) ha problemi d'altra natura. Il problema numero uno di Roma è di ritrovarsi come collettività. Sembra una cosa astratta, ma è la cosa concretissima che la città non riesce a risolvere, e che negli ultimi anni sembra aver smarrito in maniera clamorosa. Roma ha bisogno della politica come l'arte di mettere insieme le persone, indicare una strada e realizzare le attese collettive. Roma ha bisogno di demiurghi che ne plasmino forme e contenuti secondo le necessità di questo nostro tempo, qui e ora.
Roma ha bisogno che le regole siano semplici e siano rispettate (il mondo contemporaneo, a cominciare dalla rivoluzione digitale, vuole immediatezza, semplicità, velocità); ha bisogno di uccidere la bestia che si è incuneata in molti ambiti della macchina pubblica, dove l'interesse particolare, illecito e lecito, si è allargato a dismisura. Ma c'è un problema più ampio, che è quello di rendere più forte il senso d'appartenenza alla città di ciascuno. C'è bisogno che il sindaco sia, in qualche modo, il centro di riferimento morale della città. La politica allo stesso tempo produce decisioni, coagula interessi e crea un rapporto simbolico con la città, nel bene e nel male. Oggi Roma ha bisogno di riscoprire la politica al suo massimo livello di ambizione: qualcosa che possa innescare una rigenerazione della città. Ci può riuscire un city manager? Non propriamente. Questo non vuol dire, naturalmente, che per Roma serva la cura delle parole, invece di quella dei fatti. No, serve la cura delle parole e dei fatti insieme, in stretta correlazione, in un infinito rimando tra le cose dette e quelle fatte, tra la percezione dei molti e la visione dell'uno (il sindaco). È una questione molto più complessa, che però ci porta, alla fine, a capire che proprio a questo serve la politica.
C'è una scintilla che Roma aspetta da troppi anni: quella che scatti tra un'esigenza latente della collettività di avere finalmente una città ordinata, facile, elementare, e la manifestazione chiara di questa ambizione anche nella classe dirigente locale. È questa scintilla che è mancata e che i Romani aspettano, finora invano. È questa scintilla che divide un leader da qualunque altro esponente politico che, semplicemente, pensa a gestire le cose, in una visione, questa sì, riduttiva, inutile, senza futuro e senza rispecchiamento collettivo.
E Roma ha anche bisogno che siano definite quelle tre/quattro cose strutturali che cambino davvero il volto della città e anche la sua anima, la sua testa. Ci vogliono idee-guida forti, non forti perché siano declamate con enfasi retorica, ma perché hanno dentro la capacità di scardinare davvero le cose, l'attuale disperante assetto di tutto ciò che è pubblico. A esempio, si può pensare a modernizzare la città e colpire al cuore la corruzione rendendo il cambio delle destinazioni d'uso spesso frutto di corruzioni o di pressioni politiche in qualcosa di trasparente, redditizio per il Comune e capace di attrarre investimenti stranieri? Si può pensare di sciogliere il rapporto incestuoso tra il comune di Roma e l'Atac, dove il primo è azionista e, nello stesso tempo, controparte dei contratti di servizio con la stessa Atac? Si può pensare al rilancio della cultura introducendo forme giuridiche nuove (le Fondazioni) al posto dell'attuale struttura tutta dentro la pubblica amministrazione? Sono tre linee di lavoro che hanno in sé un motore di cambiamento straordinario.
Chi può affermare queste (o altre) nuove idee che cambino radicalmente Roma, se non un sindaco-politico, nel senso prima detto? Possiamo trovare una strada che non sia l'utopia di chi ha la testa tra le nuvole o il realismo di chi sta con i piedi nel fango? Si può risollevare Roma senza il concorso diretto, convinto, impegnato del suo popolo? E chi lo può raggiungere questo risultato se non un politico, cioè una persona che nasca dall'investitura popolare nella sua intenzione di cambiare radicalmente Roma?
Anche questo, alla fine, è semplice. Bisogna che chi si candidi a Roma esprima con chiarezza le cose che intende fare, e se queste sono capaci di scardinare l'attuale status quo, ancor meglio. E con chiarezza indichi alla gente di scegliere, cioè di sostenerle. Con questo spirito, forte del consenso popolare, potrà davvero cambiare le cose con il concorso di tutti. La ricerca del consenso sganciato dalla chiarezza è quello che ha portato la città al disastro.
E sarà così che Roma, senza aver scelto il suo "city manager potenziato", si troverà miracolosamente nella competizione globale tra le città che determinano il destino del mondo. La premessa è che decida il suo, di destino, prima di tutto.
Antonio Preiti